sabato 23 marzo 2019


Parlando di qualcuno oltre lo schermo, parlo di persone. E se ciò che definisce una persona è una serie di elementi, uno di questi è di certo la fede religiosa, il proprio credo, il sistema valoriale di riferimento, la spiritualità

Appena tornata da un breve ma intenso viaggio in India, mi sconvolge confrontare il caos indiano, cosi sporco e maleodorante ma così colorato e pregno di significati, con un sempre più freddo e inconsistente sistema valoriale che circonda la realtà occidentale.

O forse, con la paura crescente dell’estremismo, della fede che diventa ideologia dominante.

O piuttosto, semplicemente in continua evoluzione con il progresso delle conoscenze nei campi del conoscibile.

Non riesco a togliermi dalla testa l’incessante richiamo nel tempio sorto  sul luogo di nascita di Krishna affiancato dal richiamo del muezzin e dalla presenza del tempio buddista, tutto in perfetta simbiosi e rispetto di credo così lontani ma così ugualmente significativi per l’uomo.

Ovunque si vada, un popolo si domanda i perché fondamentali e se ne da’ risposta. O almeno, trova in un qualcuno al di fuori di se’ uomo la possibilità di una anche incomprensibile risposta.

In questo marasma di credo religiosi, noi dove siamo?

Come scriveva Buber: tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un accesso diverso, ritengo che ognuno debba sentirsi libero di entrare al mistero della spiritualità secondo ciò che più sente vicino è vero. Ma la società è pronta ad accettare che ognuno entri per la propria porta?

La multi religiosità, sarà una nuova sfida?

Non mi resta da chiedere a noi, italiani che tanto temiamo il contatto con diverse religioni: dove troviamo il nostro credo, in cosa spendiamo la vita? Per che cosa ritualizziamo gesti e ripetiamo preghiere?

Noi educatori, siamo capaci di rispondere al bisogno di chi incrocia la nostra strada di capire chi è, da dove viene, qual è il suo scopo nel mondo?

mercoledì 6 marzo 2019

Pensando a qualcuno dei tanti oltre lo schermo, penso a loro.
I figli nati in Italia da genitori immigrati. Penso agli adolescenti, in particolare.
La "seconda generazione", quella a metà tra due mondi che si trovano ad incontrarsi e scontrarsi per poterne tirar fuori giovani onesti, forti, capaci di prendersi cura della famiglia.
Ne incontro tanti, ogni giorno.  
Sempre alle prese con molteplici sfide, confrontati coi loro coetanei.
Sono figli del sogno migratorio, la speranza del futuro nel paese d'approdo.
Sono figli di stranieri, con culture spesso lontane da quella del paese ospitante e non raramente guardate come pericolose.
Sono nati in una terra che li considera stranieri, ma il loro sistema culturale è del paese ospitante, la lingua e gli amici pure.
Sono il ponte tra due mondi.
Ma sono anche, semplicemente, adolescenti che stanno cercando la propria identità.
Il problema è trovarla, tra tutto ciò che li circonda.

Infatti, come scrive una ricerca del 2011, se, generalmente, gli immigrati hanno un forte problema di identità, assai diverse sono le strategie identitarie dei loro figli nati o arrivati bambini in Italia.
Il percorso di costruzione dell’identità dell’adolescente, figlio di genitori immigrati, è un viaggio tra perdite e ritrovamento, che nasce e si consolida grazie alla possibilità di riconoscersi in un gruppo, di costruirsi un’identità sociale che condivide aspetti della cultura del passato e del nuovo gruppo di appartenenza: in questo processo sono fondamentali le figure che facilitano la costruzione di questa identità, da un lato i genitori, parenti e conoscenti provenienti dal proprio Paese e dall’altro insegnanti, educatori e gruppo dei pari del Paese di accoglienza.
In questo senso si può parlare positivamente della formazione di un’identità ibrida. (Le seconde generazioni e il problema dell’identità culturale: conflitto culturale o generazionale?; 2011)

Ma perché non si crei un conflitto intergenerazionale, è necessario che i figli e i genitori si vengano incontro: che i genitori lascino i figli vivere appieno il nuovo contesto culturale e che i figli permettano ai genitori di mantenere vive le proprie origini culturali.
E' necessario quindi che la comunità immigrata crei rete attorno ai giovani, per accompagnarli nella formazione identitaria come adolescenti e come figli di immigrati in un paese che ancora fatica a definirli propri cittadini.
Perché è in quella solitudine, che l'identità di questi ragazzi verrà messa in discussione, da influenze culturali ormai normalizzate o da qualche commento affilato.
Una ricerca CNEL del 2011 ci dimostra che i ragazzi di seconda generazione hanno molti amici, possiedono il cellulare, amano la musica e vestire alla moda, navigano su internet. Non vanno in discoteca, non fumano, non bevono, non si fanno le canne, non marinano la scuola e raramente fanno tardi la sera. Si ritengono integrati, si riconoscono nella nostra società molto più dei loro coetanei italiani e credono che la famiglia sia una risorsa per l'integrazione.
E me lo conferma mia sorella, professoressa di una scuola secondaria di primo grado di un piccolo paese della Romagna. I ragazzi figli di stranieri sono i più bravi in classe. Almeno nella sua.

Ma allora perché tanti altri invece vivono conflitti identitari, familiari e sociali spesso drammatici?

Quali sono, al di la' di ricerche sociologiche, i fattori di resilienza, di adattamento all'ambiente, di formazione dell'identità culturale, necessari perché i giovani di seconda generazione "spacchino" e diventino cittadini attivi dell'Italia di domani?



venerdì 22 febbraio 2019

C'è qualcuno?

Quante volte, bussando alla porta, ho pronunciato queste parole.
Quante volte mi sono lanciata, con la mia bicicletta, o il mio "ciao" rosso fiammante, per le vie della campagna, a fare raccolte viveri per l'oratorio, a distribuire volantini, a invitare a qualche evento.
Caricavo scatole, persone, e via, senza paura, a suonare campanelli o a battere pugni su porte cigolanti di vecchie case di campagna.
E ogni porta aperta, un sorriso, qualche convenevole.
Che poi, qualche volta, diventava un po' di più, diventava uno scambio di parol; che poi, spesso, diventava il ricordo della propria storia tramite la voce di qualche abitante un po' più datato di me.

Oggi, ogni giorno, nel mio lavoro è così.
La mia vita è rimasta segnata, dolcemente, da questo modo così brusco e così invasivo di incontrare persone. Ogni giorno, la maggior parte del tempo che passo è così.
Ascolto storie, racconto la mia.
A pillole, a volte amare, a volte più leggere e facili da mandar giù.
A suon di lacrime, di voglia di tapparmi le orecchie e di smettere di guardare.
Con la voglia di farne altre mille, di domande, ma con la consapevolezza che serve pazienza, per ascoltare. Serve spazio.
Spazio reale. Non virtuale.
E allora, appena la tecnologia fa sentire i suoi tentacoli, esco a camminare, a guardare il mondo che mi circonda e ad ascoltarne i suoni.
Lascio vagare lo sguardo sui dettagli attorno a me, perché mi riempiono di passione, di curiosità.
Perché incontrare persone e iniziare una conversazione, chiamare col cellulare per farsi due chiacchiere, aspettando un treno o il proprio turno in fila, sono ancora metodi che preferisco al semplice uso, patologico ormai, di messaggi istantanei e capaci come poche altre cose di lasciare sospeso il fiato per interi minuti se non ricevono risposta nel più breve tempo possibile.

Ed ecco qui, la domanda ritorna...

C'è ancora una persona capace di alzare gli occhi e vedere, per caso, un falchetto volargli sopra la testa, o un airone maestoso fermo in mezzo ai campi?
C'è ancora qualcuno capace di piangere per una luna piena gialla, per un arcobaleno sbiadito, per un albero appena germogliato?
C'è ancora chi sa ascoltare una storia senza farne uno slogan, senza strumentalizzarla, ma semplicemente accogliendola, per poterla restituire un giorno a qualcun altro?

C'è ancora qualcuno oltre lo schermo?



Parlando di qualcuno oltre lo schermo, parlo di persone. E se ciò che definisce una persona è una serie di elementi, uno di questi è di ce...